In uno sport ancora estremamente legato alla tradizione, e in particolare a quella delle classi più agiate come il tennis, il torneo di Wimbledon rimane l’esempio più lampante di connubio tra storia (tanta) e modernità (poca).

Mai come quest’anno, però, guardandolo si è avuta la sensazione di seguire una specie di tragicommedia, un grottesco tentativo di mantenere il torneo nella sua bolla fatta di outfit total white, fragole con la panna – tanto buone quanto costose –, e celebrità ad affollare gli spalti. Fuori, invece, il mondo continua ad evolversi, bussando sempre più insistentemente alle porte dell’All England Club di Londra.

Quest’anno, a rompere la patina di neutralità di Wimbledon è stata l’invasione russa in Ucraina. Come quelli di tanti altri enti che organizzano manifestazioni internazionali, il board di Wimbledon ha preso iniziativa in maniera netta, escludendo da tutti i tabelloni le tenniste e i tennisti russi e bielorussi. Decisione che ha causato una grande frattura diplomatica con le associazioni che gestiscono i tornei maschili e femminili, oltre al polverone mediatico: diversi addetti ai lavori hanno criticato una decisione all’apparenza approssimativa ed illogica.

Se è vero che Vladimir Putin non è nuovo all’utilizzo dei successi sportivi come arma di propaganda interna, è altrettanto vero che in diversi casi, Medvedeev, Rublev, i loro e le loro connazionali hanno pubblicamente condannato l’azione militare russa, pur da una posizione privilegiata, esponendosi in maniera comunque coraggiosa. A difesa di questa idea, ATP e WTA hanno privato Wimbledon del montepremi di punti nel ranking, declassandolo di fatto ad un prestigiosissimo torneo di esibizione.

Ed ecco, dunque, che a fine torneo le decisioni del direttivo sono tornate indietro come un boomerang, svelando tutti i paradossi di questa particolare edizione 2022. In primis, quello di Novak Djokovic. Splendido vincitore, il serbo ha ancora una volta dato fondo a tutta la sua classe e la sua resistenza, rimontando due set a Jannik Sinner (ottimo attore non protagonista, assieme allo sfortunatissimo Berrettini sarà atteso su questi schermi il prossimo anno) in quarti di finale ed uno a Cameron Norrie in semi.

Ventunesimo slam in bacheca (-1 da Rafa Nadal, +1 su Roger Federer), settimo titolo vinto a Wimbledon, quarto consecutivo: il 4-6, 6-4, 6-3, 7-6 rifilato alla meravigliosa follia di Nick Kyrgios in finale parla di un tennista in totale controllo del gioco. Dopo il match, mentre il serbo era impegnato a far correre i suoi figli sul prato del Campo Centrale, o a chiacchierare assieme alla famiglia reale quasi con l’aria di un veterano scampato alla guerra – lasciando il trofeo in mano al piccolo George –, la sua classifica si preparava a crollare: scaduti i 2000 punti dell’analoga vittoria del 2021, non ne sono arrivati di nuovi proprio per colpa del duello diplomatico tra i vertici del tennis mondiale. Così, l’uomo del momento è andato a dormire domenica da numero 3 del ranking, e si è svegliato lunedì da numero 7. Oltre al danno, la beffa: in cima alla classifica c’è ancora Daniil Medvedev, che sull’erba londinese non ha potuto neanche mettere piede.

Anche il tabellone femminile, però, ha riservato brutte sorprese agli organizzatori. L’iper-pubblicizzato ritorno in campo di Serena Williams dopo un anno di stop è durato appena tre ore, il tempo necessario alla numero 118 del mondo Harmony Tan per regalarsi una serata da sogno:  7-5, 1-6, 7-6 a chi questo torneo lo ha vinto ben sette volte.
In generale, il torneo è stato tutt’altro che altisonante: tante le teste di serie cadute nei primi turni, che tra le top 15 hanno risparmiato solo la tunisina Ons Jabeur. Numero 3 del seeding, la classe 1994 è stata la prima tennista africana a raggiungere una finale di un torneo del Grande Slam: a privarla del sogno Elena Rybakina, al primo trionfo di prestigio della sua carriera: 3-6, 6-2, 6-2.

A questo punto, però, la situazione si è rivelata in tutto il suo senso grottesco: Rybakina gareggia dal 2018 sotto la bandiera del Kazakistan per motivi economici e diplomatici, ma è nata e cresciuta a Mosca. Nell’edizione in cui a nessuno è stato permesso di gareggiare sotto la bandiera della Russia, il trofeo è finito proprio a casa di una giocatrice che lo ha fatto fino a quattro anni fa. Ciliegina – si fa per dire – sulla torta, il surreale scambio di battute nella conferenza stampa post-partita: all’indelicato giornalista che le chiede se condanni o meno l’invasione dell’Ucraina, Rybakina risponde dicendo di non conoscere abbastanza l’inglese per rispondere alla domanda, ricordando di gareggiare per il Kazakistan. Non è opportuno né interessante cercare di capire se sia un goffo tentativo di glissare sul tema o il genuino imbarazzo di una ragazza di 23 anni che non dovrebbe essere chiamata ad esprimersi su certi temi, ma il pessimo retrogusto di una figuraccia mediatica dell’organizzazione rimane.

A cozzare con la proverbiale compostezza del torneo londinese è stato anche Nick Kyrgios, giullare del circuito per eccellenza, talento tanto limpido quanto tormentato. A 27 anni, l’australiano ha raggiunto sull’erba di Wimbledon il miglior risultato della sua carriera, a modo suo: con un tennis tanto peculiare da risultare inimitabile, e allo stesso tempo ipnotico da guardare; ma anche con le sue imprevedili scenate . Dallo sputo in direzione di uno spettatore al primo turno contro Paul Jubb, al pirotecnico quarto di finale contro Stefanos Tsistipas fatto di provocazioni, schermaglie, frecciatine molto poco celate e proteste continue, Kyrgios ha mostrato tutto il reperorio. Sembra paradossale come un animo così tumultuoso (anche in finale, contro Djokovic, non ha lesinato urla e monologhi in direzione del suo angolo) abbia raggiunto l’apice – per ora – della sua vita professionale in un luogo che sembra sforzarsi al massimo per rimanere immobile ed immutabile nel tempo.

L’edizione 2022 è stato un campanello d’allarme che probabilmente però non raggiungerà i salotti ingessati del board del torneo londinese. Qualora ci riuscisse, metterà gli organizzatori davanti ad un bivio: decidere di muoversi in avanti, a discapito della tradizione, per abbracciare i valori di inclusività e tolleranza che la modernità quasi impone, o rimanere barricati in una torre d’avorio che sembra sempre più fragile.

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