Il 17 gennaio ha preso il via l’edizione 2022 degli Australian Open, uno dei quattro tornei  che compongono il Grande Slam, il massimo circuito di competizione del panorama tennistico internazionale.

Per la prima volta dal 2004, e dopo aver trionfato in nove delle ultime quattordici edizioni, Novak Djokovic non partecipa al torneo di singolare maschile.
Il serbo, attuale numero uno del mondo, nell’ultimo decennio ha raggiunto Rafael Nadal e Roger Federer (rispettivamente di uno e sei anni più anziani) in cima alla classifica del numero di vittorie Slam complessive (venti), ma soprattutto nel cuore delle ricorrenti discussioni – destinate a non risolversi probabilmente mai – su chi sia il più grande tennista della storia.

Mentre i suoi due storici rivali hanno saltato più tornei dello Slam dal 2016 ad oggi (nove assenze per Federer, quattro per Nadal), perlopiù per problemi fisici, Djokovic ha mancato solo lo US Open nel 2017, suo personale annus horribilis, per un infortunio al gomito. Approfittando del progressivo calo del resto dei Big Three, nelle stagioni successive Nole ha letteralmente dominato il circuito, dando l’impressione di essere il prototipo del tennista perfetto. Alla vigilia del primo grande appuntamento di quest’anno, invece, il numero uno del mondo è stato scortato dalla sicurezza al suo posto in prima classe su un volo Melbourne-Dubai, dopo la revoca del suo visto e il conseguente ordine di espulsione dall’Australia emanato dai giudici della Corte Federale. Ma come si è potuti arrivare a questo punto? Proviamo a ripercorrere insieme quella che sembra a tutti gli effetti la trama di un romanzo distopico con la COVID-19 sullo sfondo.

A fine novembre Craig Tiley, presidente di Tennis Australia – comitato organizzatore degli AO – rende ufficiale che per prendere parte all’edizione 2022 del torneo sarà necessario essere vaccinati contro il SARS-CoV-2 oppure sottostare alle pesantissime restrizioni già applicate nel 2021 (quarantena di 14 giorni e una sorta di reclusione in albergo per tutta la durata del torneo). Immediatamente, l’elefante si materializza nella stanza: non è un caso che tutte le principali testate internazionali affianchino una foto di Djokovic, alla dichiarazione di Tiley.

Il serbo ha sempre glissato sul suo essere o meno vaccinato, ed in generale ha espresso posizioni piuttosto controverse sul virus e sui vaccini. Già ad aprile 2020, in una chat Facebook in cui si discuteva di un’eventuale possibilità di ripresa per il circuito ATP una volta che il vaccino fosse stato disponibile, aveva ammesso di essere personalmente «contrario alle vaccinazioni», e di non voler sottostare all’obbligo vaccinale per poter viaggiare.

Questo episodio ha sollevato un polverone mediatico, e nel periodo successivo Nole non ha fatto nulla per calmarlo, rendendosi protagonista di una serie di episodi molto contestati. Tra questi, la surreale diretta Instagram con il santone Chervin Jafarieh, che davanti al campione serbo ha sostenuto una teoria secondo la quale le emozioni umane possano modificare la composizione delle molecole dell’acqua e di conseguenza le sue proprietà.

 

Settantadue minuti irreali.

Infine, la ciliegina sulla torta: sempre ad aprile 2020, Djokovic è stato organizzatore e promotore dell’Adria Tour, un torneo itinerante con finalità benefiche disputato tra Zara e Belgrado in cui – altra situazione surreale – né ai giocatori né al pubblico presente sono stati richiesti distanziamento, mascherine o una qualsiasi altra forma di tutela dal virus. Il focolaio che ha portato all’annullamento dell’evento ha coinvolto anche lui e sua moglie Jelena.

Scelte che sembrano e in parte sono assolutamente folli, ma che rientrano nel quadro di un personaggio complesso, sfaccettato, quasi tormentato dall’ossessione per la cura del corpo (tra le altre cose, non beve acqua fredda e segue una dieta plant-based gluten-free alla quale ha dedicato molte parti del suo libro). Sul suo fisico sembra applicare la stessa feroce tenacia ed intensità con le quali gioca a tennis.

Insomma, nonostante i dubbi e le opinioni, era chiaro a tutti che la presenza del numero uno del mondo a Melbourne fosse in dubbio. Almeno fino al 4 gennaio, quando Djokovic rompe il silenzio e pubblica un post su Instagram che lo ritrae sulla pista di un aeroporto, sorridente, accanto ai suoi bagagli. È diretto, si legge nella didascalia, Down Under, per merito di una nebulosa esenzione medica concessa da Tennis Australia. Sarà proprio questa il fulcro della sua battaglia legale contro le autorità australiane.

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L’inizio della fine.

Arrivato in Oceania, infatti, Djokovic rimane bloccato per tutta la notte all’aeroporto di Tullamarine, isolato in una stanza ed interrogato a più riprese. I dubbi della polizia di frontiera sulla sua esenzione e su alcuni errori formali presenti nella sua richiesta di visto non si placano, e dopo otto ore quest’ultima viene cancellata.

L’evento scatena una sequela di scene cinematografiche da colossal americano. Melbourne diventa il centro dell’attenzione mediatica del mondo tennistico e non solo. All’esterno dell’aeroporto una laconica macchina di servizio marchiata Australian Open attende per ore un passeggero che non arriverà mai, regalando ai fotografi una delle foto-simbolo dell’incredibile doppio autogol burocratico.
Da un lato, sembra sempre più chiaro come Djokovic sia disposto a tutto pur di aggirare le regole e partecipare al torneo; dall’altro, l’associazione tennistica australiana sembra aver concesso un via libera concordandolo con lo stato della Victoria, ma a quanto pare senza assicurarsi che le autorità federali – quelle che hanno realmente autorità e capacità decisionale in tema di immigrazione – fossero al corrente della situazione.

Tutta la stasi di una notte che è durata una vita: quella macchina rimarrà ad aspettare Djokovic per otto ore fuori dall’aeroporto, ma lui verrà portato direttamente al Park Hotel.

Nel frattempo si attiva la macchina diplomatica ed esplode quella mediatica: mentre il presidente serbo Aleksandar Vucic esprime pubblicamente vicinanza a Nole, gli ambasciatori e i consoli dei due paesi sono in costante contatto.
In Serbia, però, ad attirare le telecamere e i microfoni è Srdjan Djokovic, padre di Novak, che parla di una lotta per «un nuovo mondo libero» e invita i suoi sostenitori a riversarsi in strada. Effettivamente, un paio di giorni dopo, la famiglia Djokovic guiderà un corteo dai sinistri tratti nazionalisti davanti al parlamento serbo.

Questo video sembra uscito da Black Mirror.

Nel frattempo, Nole è bloccato nel Park Hotel riservato ai migranti diretti in Australia, in attesa che i suoi avvocati presentino ricorso contro la cancellazione del visto. Sempre a Belgrado, sua madre Dijana denuncia che il figlio sarebbe «tenuto prigioniero in un posto sporco, pieno di insetti», confermando le voci che descrivono la struttura come uno spazio senza tempo, nel quale le persone in attesa di giudizio (e che non siedono in cima al ranking mondiale di uno sport seguito da milioni di persone) possono rimanere anche per anni, detenute in condizioni da lager.

Il padre, invece, è ancora un fiume in piena, e in una conferenza stampa spazia da slogan nazionalisti («mettono in ginocchio lui per mettere in ginocchio la Serbia», «Novak è la Serbia e la Serbia è Novak») a paragoni con Spartaco o con la crocifissione di Cristo. Per quanto rozza, sembra trattarsi di una precisa strategia per fare leva sui sentimenti più patriottici del paese: d’altronde, Djokovic è di gran lunga lo sportivo di casa più famoso ed amato. Diversi uomini politici saltano sul carro, tra cui il ministro degli esteri Nikola Selakovic ed il già citato presidente Vucic, che parla di «molestie al miglior tennista del mondo». 

Manifestazione a sostegno dei migranti fuori dal Park Hotel di Melbourne.

All’interno di questo caos, le carte si mescolano ancora una volta: il giudice federale Anthony Kelly accoglie il ricorso, appellando come irragionevole il fermo di Djokovic e ordinando la sua immediata liberazione. Senza entrare nel merito dell’esenzione, la giustizia condanna la forma del respingimento alla frontiera.
Il serbo riesce a mettere finalmente piede sui campi dell’Australian Open, riprendendo ad allenarsi, ma proprio mentre l’opinione pubblica sembra spostarsi sul suo carro e voltare le spalle alle autorità australiane, la sua posizione torna lentamente in bilico. La pubblicazione dei documenti del processo apre un piccolo vaso di Pandora di dubbi, omissioni ed incongruenze che ben presto si riversa sulle pagine dei giornali di tutto il mondo.

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In questo momento Djokovic sembrava aver vinto l’ennesima partita.

Si viene a sapere, per esempio, che Djokovic non è vaccinato, e che la sua esenzione è legata ad una positività ad un tampone del 16 dicembre, tenuta nascosta al pubblico fino al momento della sentenza. Mentre il Der Spiegel mette in dubbio la veridicità del tampone, basandosi sulle incongruenze tra esso e quello ad esito negativo del 26 dicembre (che ha un numero seriale precedente), quasi tutti notano delle pesanti lacune nella versione del serbo. Sui suoi social, infatti, Nole ha pubblicato delle foto in compagnia di un gruppo di bambini, senza mascherina, la mattina del 17 gennaio. Successivamente, ha rilasciato un’intervista a l’Equipe, con annesso photoshoot, anch’esso senza mascherina.
Inoltre, prima di Melbourne è volato in Spagna – come si può notare sempre dai suoi social –, informazione che va a cozzare con la dichiarazione rilasciata in fase di richiesta del visto, secondo la quale Nole non dovrebbe avere viaggiato per i 14 giorni precedenti al suo arrivo in Australia.

Il 12 gennaio, sempre sul suo profilo Instagram, Djokovic prova a gettare acqua sul fuoco: in un lungo comunicato spiega di aver fatto il tampone molecolare il 16 dicembre. Contestualmente, il 16 ed il 17 dicembre dichiara di aver fatto due tamponi rapidi, entrambi negativi. Per di più asintomatico, il serbo avrebbe continuato normalmente la sua vita. L’esito positivo del PCR, secondo la sua versione, gli è stato notificato il 18 dicembre (seppur nella richiesta di esenzione veniva indicata la data stessa di esecuzione del tampone, il 16), giorno dell’intervista con L’Equipe.
Qui, Nole fa ammissione di colpa, dicendo di aver violato la quarantena pur sapendo di aver contratto il virus per non deludere il giornalista e fare fede ad un «impegno preso molto tempo prima», pur mantenendo mascherina e distanziamento sociale. Per quanto riguarda la falsa dichiarazione di viaggio, invece, il serbo cita l’errore umano del suo agente nella compilazione della richiesta di visto, parlando di «scuse sincere», «tempi difficili» ed «errori che possono capitare».

La bomba esplode: la pezza è quasi peggio del buco – Djokovic ammette di aver consapevolmente violato la quarantena e dichiarato più volte il falso – ed il dibattito si infiamma tra chi vorrebbe l’espulsione immediata e chi difende la tenacia ed il diritto alla libertà del serbo. Si parla di arresto, di una possibile condanna a tre anni di reclusione secondo la legge serba, di movimento no-vax e delle stringenti leggi sull’immigrazione australiane, il tutto in un calderone di informazioni ed opinioni sempre più ribollente e confusionario.

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Il rocambolesco e confusionario post di scuse del 12 gennaio.

A questo punto, però, lo Stato federale australiano punta a chiudere la partita: il 14 gennaio il ministro dell’immigrazione Alex Hawke cancella nuovamente il visto di Djokovic, che nel frattempo è stato già sorteggiato come prima testa di serie nel tabellone degli Australian Open.
Stavolta nessun vizio di forma, nessun dubbio sull’esenzione, ma una preoccupazione sugli effetti che la sua permanenza in Australia può generare sull’opinione pubblica. In una nota al provvedimento, il primo ministro Scott Morrison (in un periodo di calo della sua popolarità) parla di proteggere i risultati dei sacrifici fatti dagli australiani. A questo punto giova ricordare che gli abitanti di Melbourne hanno dovuto sottostare al più lungo lockdown del mondo nel 2021: 262 giorni.

La seconda cancellazione del visto, con allegata una nota del primo ministro.

La questione si sposta ufficialmente sul piano politico e sociale, e il governo australiano traccia una linea molto chiara: a questo punto, la situazione è così compromessa che Novak Djokovic non deve partecipare agli Australian Open, al di là della legittimità del visto e della veridicità delle sue dichiarazioni, in quanto esponente e punto di riferimento del movimento no-vax e potenziale minaccia alla pubblica sicurezza.

Ovviamente, i legali del serbo si lanciano nuovamente all’attacco presentando ricorso, ed ottenendo un processo praticamente ad un giorno dall’inizio del torneo. La linea della difesa è che Djokovic non si sia mai presentato come esponente dei no-vax (la tesi ha delle basi solide, se si considera che nelle sue pur nebulose e fraintendibili dichiarazioni Nole ha sempre parlato della sua situazione personale evitando considerazioni universali) ed anzi, che a fomentare le proteste degli oppositori del vaccino possa essere proprio l’eventualità della sua espulsione.

Nel frattempo, dopo il Park Hotel, anche l’impianto di Melbourne dove si sta per giocare il torneo viene invaso da manifestanti senza mascherina, avvolti in bandiere serbe, che intonano cori inneggianti al numero uno del mondo.
La corte, formata da tre giudici come richiesto dalla difesa, si esprime all’unanimità: la cancellazione del visto è valida, Djokovic deve dirigersi all’aeroporto ed uscire dal paese col primo volo disponibile.

Il momento in cui Djokovic viene definitivamente espulso dall’Australia.

Cosa resta di questa telenovela infinita? Sicuramente un senso di non necessarietà.
Non era necessario che Djokovic venisse fermato alla frontiera
, dato che la sua esenzione era stata rilasciata da Tennis Australia e dallo stato della Victoria, che quindi avrebbe potuto confrontarsi con gli enti federali e governativi prima di prendere la decisione.
Allo stesso modo, non era necessario che Djokovic provasse a costruire un sistema così intricato, fatto di omissioni, bugie e veri e propri reati, per provare ad aggirare un sistema che gli avrebbe impedito di disputare uno – al momento solo uno – dei suoi tornei preferiti. Anche se la posta in palio in caso di vittoria sarebbe stata issarsi finalmente oltre Nadal e Federer nel conteggio degli Slam conquistati.

Invece, entrambe le parti in causa sono state poco lungimiranti, altrettanto poco inclini al dialogo, ed estremamente interessate ad inviare un messaggio all’esterno piuttosto che a risolvere la questione nello specifico.
L’Australia, da un lato, ha imposto ancora una volta la sua figura di Stato estremamente restrittivo nei confronti dei migranti, fino quasi a rendersi ridicola detenendo un personaggio pubblico internazionale in condizioni pietose prima ancora di fargli avere un verdetto sulla sua richiesta di visto. Salvatosi da un terribile autogol diplomatico solo gonfiando i muscoli e sfruttando la vasta arbitrarietà della legislazione in materia di espulsioni, il governo aussie ne esce comunque meno peggio di Djokovic e del suo entourage.

Il tennista serbo ha confermato una volta per tutte le controversie legate alla sua figura, inanellando una collezione incredibile di figuracce in termini di pubbliche relazioni. La sua immagine ne esce compromessa non solo agli occhi dei più accaniti avversari dei no-vax, che ora si bullano di lui in maniera plateale, ma anche a quelli degli appassionati di tennis e di qualunque persona media che abbia seguito la vicenda.

Troppe le contraddizioni, troppi i tentativi evidenti di utilizzare il suo privilegio per farsi beffe delle regole (e del buonsenso) e perseguire interessi personali. D’altronde Djokovic, cresciuto ed esploso all’ombra della nobiltà di Federer e Nadal, è da sempre abituato a ricoprire il ruolo del villain, del nemico, del cattivo, e ci si è calato dentro talmente bene da dare a questo personaggio una profondità, una tridimensionalità ed una credibilità mai vista nel mondo dello sport professionistico. Djokovic, per certi versi, è cattivo e non fa nulla per nasconderlo. Proprio questo, però, come un’arma segreta che si aggiunge al suo straordinario talento, lo ha reso a lungo semplicemente imbattibile.

Tuttavia, nella sua vita il serbo non era mai stato così al centro del ciclone di critiche dell’opinione pubblica, quando appena qualche mese fa sembrava averci finalmente fatto pace durante l’inferno della finale degli US Open.
A New York Nole è arrivato con l’obiettivo di chiudere il poker stagionale vincendo il quarto torneo del Grande Slam su quattro  (impresa riuscita solo a Rod Laver oltre cinquant’anni fa), ma ne è uscito con le ossa rotte dopo una finale dominata da Daniil Medvedev.
L’immagine del cattivo per eccellenza che si commuove, scoppiando a piangere a dirotto durante il terzo set, ha fatto il giro del mondo. Nole è sembrato sciogliersi, umanizzarsi nella sconfitta, mentre la gente per una volta gridava all’unisono il suo nome e lo incitava a rimontare.

Diciamoci la verità: nessuno riuscirebbe ad avere sentimenti negativi verso QUESTO Djokovic.

Quella magia si è dimostrata effimera ed ora è sparita, così come l’alter ego buono del tennista serbo. Data la sua storia personale, a questo punto è lecito aspettarsi un ritorno in grande stile, quello di un fenomeno in versione schiacciasassi alimentato dalla frustrazione e dalla voglia di rivalsa.
Attenzione però, perché il giocattolo che mantiene attivo il fuoco del serbo si è già rivelato fragile in diverse occasioni, e sta affrontando la sollecitazione più violenta della sua storia. Intanto, si vocifera già che il Roland Garros, secondo Slam dell’anno in scena a Parigi, possa negare la partecipazione ai giocatori non vaccinati…

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