Londra

Un vischio, fin dall’infanzia sospeso grappolo

di fede e di pruina sul tuo lavandino

e sullo specchio ovale ch’ora adombrano

i tuoi ricci bergère fra santini e ritratti

di ragazzi infilati un po’ alla svelta

nella cornice, una caraffa vuota,

bicchierini di cenere e di bucce,

le luci di Mayfair, poi a un crocicchio

le anime, le bottiglie che non seppero aprirsi,

non più guerra né pace, il tardo frullo

di un piccione incapace di seguirti

sui gradini automatici che ti slittano in giù…

                          (da La bufera e altro, 1956)

 

 

Eugenio Montale, una delle penne più amate e studiate del Novecento, è rinomato per la sua grande capacità di aprire un profondo varco nell’interiorità umana tramite apparentemente semplici fotografie del quotidiano. Molti ricorderanno l’esempio scolastico degli “Ossi di Seppia”, che danno il nome ad un’altra delle sue più famose raccolte poetiche: una metafora tangibile che oggettiva un complesso concetto esistenziale, ossia la percezione della scarnificazione della vita stessa. È proprio questo che accade nella parabola del suo stile poetico: si scarnifica sempre di più, riducendosi ad immagini materiali e comuni, ma per questo ancor più potenti, impregnate di vuoto e di un’inafferrabile malinconia.

Non proprio ciò che ci si aspetterebbe da una lettura in tema natalizio, certo, ma questo Natale metropolitano potrebbe fare al caso di chi, non più bambino, vive la speciale festa del 25 dicembre in maniera ormai diversa, e avverte questo cambiamento con nostalgica consapevolezza. Non è forse più il tempo delle allegre filastrocche sui presepi e sulle renne, recitate con fierezza ai nonni dopo i panettoni del pranzo, ma è sempre tempo per sentire, stupirsi, riflettere ed emozionarsi.

Siamo in un appartamento a Londra, dove una donna ha appeso sul lavandino un rametto di vischio: un addobbo spoglio e distratto, che però mantiene il suo antico e personale simbolismo, fin dall’infanzia coperto “di fede e di pruina”. Resta “sospeso”, quasi come il ricordo della magia percepita in tenera età, nella sera della Vigilia, in attesa di Babbo Natale: un’atmosfera d’eccitazione e speranza, inesorabilmente sfumata nel tempo. Tutto intorno, il disordine della routine: cenere di sigarette, resti di frutta, una caraffa svuotata, le prove di una quotidianità consumata, priva di alcun incanto. Intravediamo anche le luci (natalizie?) del quartiere di Mayfair, ma non sfavillano a tal punto da evocare festosità, non è così semplice: Montale qui ha l’accortezza di lasciarle sole e spoglie, senza alcun aggettivo caratterizzante, nè alcuna descrizione “colorata”.

Il Natale è solo nel titolo e nel piccolo vischio, relitto dal passato. Ad un incrocio le persone sembrano dissolversi, delle bottiglie sono rimaste chiuse (probabilmente un parallelo metaforico con le “anime” stesse), non c’è “né guerra né pace”, ma un’indefinita stasi, un’aria d’indifferenza, quasi come le vie si fossero addormentate nel loro ritmo incessante e automatico. Il battito d’ali del piccione è “tardo”, non riesce a seguire il viavai urbano, non sta al passo della nostra fretta, vive un altro tempo. La donna dai folti ricci scompare dalla scena che Montale ci descrive, come inghiottita dalle scale mobili della metro, che la trascinano giù, in dissolvenza.

L’augurio per quest’anno, allora, è quello di trovare la “magia”- di cui tanto si sente parlare- anche nel piccolo del quotidiano, nello spazio che ci accoglie, senza farci risucchiare da esso, vivendo con comprensione le nostre malinconie, e anche quelle altrui, dando loro una nuova forma: rallentiamo e sentiamo quell’antico calore, pur sapendo adesso che Babbo Natale siamo noi. Buone feste!

 

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