Con la guerra alle porte è tornato in auge un argomento molto discusso, il riarmo degli eserciti nazionali . Un tema molto divisivo a livello politico ma che, alimentato dalla paura collettiva, ha fatto vacillare anche i partiti da sempre alla belligeranza.
La Camera dei deputati ha approvato il contestato Decreto Ucraina, che autorizza il governo ad aumentare le spese militari al 2% del Pil entro il 2028 (e non più il 2024), per evitare uno strappo all’interno della maggior parte da parte del Movimento 5 Stelle. Passare da 25,8 miliardi a circa 38 miliardi all’anno, in modo strutturale, significa ricalibrare il bilancio statale e sottrarre risorse ad altre voci di costo.

La guerra in Ucraina tra (dis)informazione e TikTok

Questa soglia, il famoso vincolo imposto dalla Nato, è stata al centro di molteplici dibattiti mediatici in questo periodo.
L’indicazione di spesa di almeno il 2% del PIL in ambito Nato deriva da un accordo informale del 2006, stipulato dai ministeri della Difesa dei paesi membri dell’Alleanza Atlantica.
Lo stesso è stato ripreso nel 2014, in Galles, all’interno un discorso più ampio che comprendeva tre macro-obiettivi (le tre C): il 2% delle spese per la difesa rispetto al Pil (cash), il 20% delle spese per investimenti in «major equipments» rispetto a quelle della difesa (capabilities) e l’impegno a contribuire a missioni, operazioni ed altre attività (contributi) dell’alleanza. Gli stessi impegni sono stati ribaditi a Varsavia nel 2016 con il cosiddetto Defence investment pledge che, come sottolinea il Ministro della Difesa Lorenzo Guerini, nel Documento programmatico 2021-2023, «continua a rappresentare una delle questioni politiche centrali del dibattito che si sviluppa in seno» alla Nato.

I dati dell’ultimo report del Sipri di Stoccolma, il più rilevante istituto di ricerca internazionale sulla pace, parlano chiaro: nel 2020 la Nato ha investito in spese militari circa 1.103 miliardi di dollari, pari al 56% della spesa globale, mentre la Russia solo 67 miliardi. L’Europa, considerata in blocco, ha sborsato233 miliardi, il 12 per cento di quanto viene speso in tutto il mondo. Numeri che sono in crescita da anni praticamente dappertutto: nel 2020 è stato registrato un incremento complessivo del 2,6 per cento in termini reali (più 9,3 per cento nell’ultimo decennio).Anche da noi l’aumento è una costante: più 3,4% nel 2022 rispetto all’anno precedente, più 11,7% nel 2021, più 19,6% nel 2020.


Nel 2021 solo otto Stati membri su trenta rispettano l’obiettivo del 2%: Grecia, Stati Uniti, Polonia, Regno Unito, Croazia, Estonia, Lettonia, Lituania. Tra questi non c’è l’Italia, la cui quota di spesa per la difesa si ferma all’1,54% (era 1,14% nel 2014).
Per quanto riguarda, invece, la percentuale relativa alle spese militari destinate agli investimenti, i dati italiani sono coerenti con le linee guida Nato: il 21,8% della spesa per la difesa è stata diretta all’acquisto di armamenti di ultima generazione.

Lo sviluppo cronologico testimonia quanto il discorso del riarmo e dell’ammodernamento militare da parte dell’Occidente sia già da anni al centro del dibattito interno alla Nato. Ovviamente, il conflitto attuale ha messo sotto i riflettori le inadempienze dei più, nella maggior parte dei casi conseguenze naturali delle due crisi economiche intercorse dal 2006 ad oggi e dalla pandemia da Covid-19.
Negli anni la Nato si è ampliata annettendo molte nazioni del vecchio blocco Sovietico. Secondo diversi analisti, questa è stata una delle maggiori cause dell’insofferenza russa che ha portato all’attacco nei confronti dell’Ucraina. Il tutto in un ottica che vede gli Stati Uniti come attuatori di una logica imperialista, fautori di una dimostrazione di forza finalizzata alla realizzazione di un’area di influenza a loro stessa protezione.
Come spesso accade, il grande assente nello scacchiere internazionale è l’Europa. In un mondo globalizzato la dimensione minima per avere un peso è quella continentale, ma le divisioni politiche troppo spesso limitano l’avanzamento del progetto europeo, anche sotto l’aspetto di una politica Estera e di Difesa comune.


Vari tentativi si sono susseguiti per istituire una difesa comune dalla nascita della Comunità Europea fino ad oggi, senza ottenere grandi risultati. L’articolo 42 del Trattato di Maastricht sancisce come la difesa dell’UE sia affidata a ogni singolo Stato membro, ma sono già stati fatti dei passi dei passi nella direzione di una difesa comunitaria.
Il passaggio centrale di questo percorso è nel Trattato di Lisbona, anche in questo caso nell’articolo 42 che impone agli stati membri di intervenire con tutti i loro mezzi qualora uno o più stati venissero attaccati da entità extra UE.

Uno degli atti più concreti fino ad ora, denominato Bussola Strategica, è stato messo a punto dall’Alto Rappresentante Josep Borrell. In esso, viene messo nero su bianco che un primo passo per la costruzione delle Forze Armate deve essere fatto già da quest’anno, per poi venire completato l’anno prossimo.
Nel 2018 è stato calcolato che una difesa comune europea permetterebbe non solo di rendere più efficienti le forze armate, ma anche di risparmiare circa 26 miliardi di euro.
Entro quest’anno verranno definiti gli scenari operativi, con l’indicazione delle aree dentro le quali il Battaglione Europeo potrà muoversi. Tra gli spazi strategici, c’è proprio quello che va dai Balcani al Mediterraneo asiatico, inglobando l’Ucraina, fino all’Africa. Un’estensione territoriale molto vasta che verrà controllata da 5mila soldati: questo il limite attuale del personale impiegato che potrebbe, però, aumentare.
Se vogliamo avere un ruolo negli equilibri internazionali l’Unione Europea deve disporre di un moderno ed efficiente esercito, efficace strumento di difesa e di autentico peace keeping, sia entro i confini UE che al di fuori. La priorità assoluta è consolidare una comune politica estera e un’autorevole diplomazia che la sostenga nelle sedi opportune.

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